Enrico Barbetti
il Resto del Carlino
Mi chiamo Enrico Barbetti e lavoro alla cronaca di Bologna del quotidiano ‘Il Resto del Carlino’. Sono stato chiamato a rendere la mia testimonianza assieme ad altri colleghi che hanno subito minacce e intimidazioni per il loro lavoro e, guidando verso Conselice per l’inaugurazione del sito dell’Osservatorio sulla Libertà di Stampa, ho pensato che in effetti io di minacce ne ho ricevute ben poche, a parte qualche generico insulto a margine dei cortei, come accaduto a tanti altri cronisti, con il solito frasario che spazia da ‘pennivendolo’ a ‘sciacallo’. Nel mio caso si è passati direttamente, o quasi, alle mazzate.
Per chi non ricordasse l’episodio a cui mi riferisco, è avvenuto l’8 novembre 2014 a Bologna, nei pressi del campo nomadi di via Erbosa, dove c’era una manifestazione antagonista di protesta contro la visita del leader della Lega Salvini. Come cronista di nera, mi trovavo lì per seguire gli aspetti di ordine pubblico. A margine del presidio, quando ormai tutto era finito, mi sono ritrovato isolato sul posto e sono stato notato da un gruppo di una ventina di attivisti di area anarchica, che già mi conoscevano perché mi occupavo da tempo di loro, i quali hanno iniziato a seguirmi. Mi hanno tallonato mettendo in atto una serie di provocazioni: dal solito corollario di insulti che non vale la pena di ripetere, agli sgambetti, al trattenermi per il cappuccio della giacca e così via. Cercavano di suscitare una reazione che potesse giustificare un pestaggio. Ho evitato in ogni modo di reagire, mentre stavo al telefono con la centrale del 112. Visto che continuavo ad allontanarmi evitando lo scontro nella proporzione di venti a uno, qualcuno ha pensato di rompere gli indugi e, dopo avere preso la rincorsa alle mie spalle, mi ha sferrato un calcio sulla gamba destra facendomi ruzzolare a terra. Cadendo mi sono procurato alcune abrasioni alle ginocchia e la frattura di un gomito. Ora, alla sentenza di appello giunta a febbraio del 2022, dopo quasi 8 anni dai fatti, tre dei quattro imputati riconosciuti colpevoli sono stati condannati a 2 mesi, e il quarto a 8 mesi, tutti con sospensione condizionale della pena, anche in virtù del fatto che questi soggetti, benché abbiano tutti alle spalle molte denunce, a volte decine, sono sempre formalmente incensurati visto che i processi per questi reati non arrivano mai a sentenza.
Faccio presente che due mesi di condanna sono un tempo inferiore alla prognosi che ho avuto per il mio gomito rotto, che è stata di 63 giorni, durante i quali non ho potuto fare il mio lavoro e molte altre cose. Peraltro nella sentenza di primo grado, arrivata nel 2021 a 7 anni dal fatto, il tribunale aveva subordinato la sospensione della pena al risarcimento del danno, una statuizione che è stata cancellata in appello e ad oggi io non ho avuto un centesimo, che comunque non cambierebbe di molto la sostanza dei fatti. Ora, lascio a voi immaginare come si sarebbe mossa e con quali tempi la macchina della giustizia se lo stesso trattamento che ho subito io, ovvero un giornalista, fosse stato rivolto a un parlamentare o addirittura a un magistrato.
Quando, alcuni giorni dopo l’aggressione, la dottoressa Antonella Scandellari, il pm che peraltro ha condotto molto bene il processo, mi ascoltò per ricostruire l’accaduto, prima di aprire il verbale mi ammonì affinché dicessi la verità e indicassi i responsabili che potevo riconoscere nelle immagini della manifestazione girate dalla polizia scientifica. Probabilmente temeva che, per paura di ritorsioni o per non compromettere i buoni contatti che avevo nel mondo antagonista che seguivo da tempo, non avrei indicato gli aggressori. Io le risposi che poteva stare tranquilla, che io arei fatto il mio dovere di cittadino, come era nel mio interesse, ma che sarebbe stato comunque uno sforzo vano perché a valle del mio e del suo impegno la macchina della giustizia nel suo complesso non avrebbe poi fatto altrettanto. Me lo suggeriva l’esperienza di parecchi anni trascorsi a seguire questa materia da cronista.
La dottoressa Scandellari, come mi aspettavo, lavorò infatti efficacemente e rapidamente e nel giro di sei mesi chiuse l’inchiesta, inviando gli avvisi di fine indagine a una serie di indagati, fra i quali i quattro poi condannati. Dopo quella partenza sprint, contavo che nel giro di qualche mese mi arrivasse una notifica per l’udienza preliminare, ma il 2015 si concluse senza ulteriori notizie. Passò così anche il 2016, poi il 2017 e il 2018. Anni in cui io avrei potuto ogni giorno incontrare per strada i miei aggressori, cosa che peraltro è anche capitata, e in cui ho evitato di frequentare alcune zone della città più rischiose per me.
Nel 2019, ormai a quasi 5 anni dai fatti, un giorno parlando con il mio capocronista Valerio Baroncini ci chiedemmo che fine avesse fatto il mio processo. Decidemmo di porre questa domanda dalle pagine del giornale e così, magicamente, a seguito di queste attenzioni, dopo qualche settimana venne convocata l’udienza preliminare per definire questo fascicolo che sonnecchiava con altre migliaia di fascicoli. Da lì in poi le cose sono andate avanti abbastanza spedite, fino alla sentenza, con i risultati che ho descritto e che, almeno, hanno confermato il principio, in teoria ovvio, che in Italia non è consentito andare in giro a picchiare i giornalisti. Viene però da chiedersi quali effetti dissuasivi abbia una sentenza che arriva, dopo sollecitazioni pubbliche, a 8 anni da un fatto di questo genere.
Nella mia esperienza, però, devo dire che le maggiori limitazioni alla possibilità di svolgere il mio lavoro di cronista non le ho subite dagli anarchici che mi hanno picchiato, i quali esprimono apertamente la loro avversione per la categoria e sono ben riconoscibili. Dai nemici dichiarati ci si può difendere, mentre è più difficile difendersi dai ‘falsi amici’ della stampa. Non è un mistero, perché anche questa notizia è stata pubblicata, che io abbia avuto un complicato contenzioso legale con un magistrato che mi ha chiesto centomila euro di risarcimento in una causa civile. Il magistrato si riteneva diffamato da un esposto che avevo presentato nei suoi confronti ad alcuni organi fra cui la Procura e il Consiglio superiore della Magistratura. Nell’esposto chiedevo di verificare la legittimità del suo operato dopo che, con altri colleghi, avevo scoperto che questo pm aveva estratto i tabulati dei nostri cellulari, esplicitamente per individuare le nostre fonti di informazione.
A chi faccia o abbia fatto anche solo per un giorno il mestiere di cronista, soprattutto di nera e giudiziaria, non può sfuggire il danno che può procurare al nostro lavoro una simile azione. Appena nell’ambiente si sparge la voce, cosa che all’epoca era avvenuta, tutti smettono istantaneamente di rispondere al telefono, compresi amici e parenti stretti, e riuscire a trovare notizie si trasforma in un’impresa disperata. Di fatto, diventa quasi impossibile fare il cronista. L’esposto che ho presentato non è approdato a nulla, ma poi mi sono dovuto difendere in tribunale in questa causa sanguinosa. Tutti mi dicevano di lasciare perdere e di pagare, perché tanto contro un magistrato non si può andare in giudizio, e che mi conveniva chiudere con una transazione. Peraltro, dato che non si trattava di una causa per un articolo pubblicato né di un’azione concordata coi superiori, il giornale non mi forniva assistenza legale. Per mia fortuna l’Aser, il sindacato a cui sono iscritto, ha compreso subito l’importanza della posta in palio e mi ha dato pieno sostengo mettendomi a disposizione il proprio ufficio legale.
Contrariamente alle aspettative di tutti o quasi, il giudice ha respinto la richiesta di risarcimento, addossando alla controparte anche le mie spese legali, e ha stabilito che il mio esposto non aveva alcun contenuto diffamatorio e che come giornalista avevo pieno diritto di chiedere una verifica giudiziaria a fronte di un atto investigativo che poteva indubbiamente interferire con la libertà di stampa, un valore costituzionalmente garantito. A questa sentenza molto chiara e dettagliatamente motivata oggi tutti noi giornalisti possiamo fare riferimento.
Raccontando queste vicende in questa occasione, il mio intento è di far capire ai colleghi che, dal mio punto di vista, oggi i giornalisti per difendere la libertà di stampa, la libertà di fare il loro lavoro e il diritto di cronaca, non devono tanto guardarsi dai nemici che non vogliono finire sui giornali, perché quelli si riconoscono facilmente e si possono affrontare a viso aperto, quanto dai ‘falsi amici’, che magari invece amano stare in prima pagina e cercano di strumentalizzare e inquinare in tanti modi il nostro lavoro per varie finalità, spesso senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. O magari, pur sapendolo, ci prestiamo al gioco perché è la strada più comoda, che per l’importanza del lavoro che facciamo è pure peggio.